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Diffamazione sui social network: ecco perché è un reato

Ora è ufficiale: la diffamazione sui social è un reato perseguibile. Infatti la sentenza n. 33219 della Corte di Cassazione del 01/07/2021 stabilisce il reato di diffamazione per la pubblicazione di messaggi offensivi ai danni di una persona sul proprio stato di whatsapp, con riferimento all’ art. 595 del Codice Penale.

Il caso specifico riguardava un uomo che pubblicava sul proprio stato messaggi offensivi intenti a ledere la reputazione della ex-fidanzata.

Social Network e diffamazione

Pur essendo ammissibile che l’imputato non fosse a conoscenza di quanti tra i suoi contatti possedessero l’applicazione, la sua colpevolezza risiede nel fatto di non aver in alcun modo limitato la visione dei messaggi, fruibili potenzialmente da ognuno dei suoi contatti.Indubbia quindi l’intenzione dell’uomo di voler diffamare l’ex compagna.

La sentenza in oggetto cita testualmente: “E’ condannato per diffamazione chi pubblica messaggi offensivi ai danni di una persona sul proprio stato di Whatsapp visibile a tutti i contatti della rubrica.”(Cass., Pen., Sez. V, Sent. N.33219/21).

E ricordiamo anche che il reato di diffamazione, di cui all’art.595 c.p., sussiste quando un individuo rivolge delle offese che hanno come scopo quello di ledere la reputazione di una persona assente, comunicando con altre persone.

Diffamazione su Whatsapp

La diffamazione tramite il canale whatsapp comporta tra l’altro una lesione amplificata quando il messaggio non è inviato al destinatario privatamente, ma viene divulgato ad un intero gruppo di persone tramite chat o addirittura all’ intera lista dei propri contatti se visualizzabile come messaggio di stato.

La discrepanza fondamentale tra la “semplice” ingiuria, che ormai non prevede più il penale, e il grave reato di diffamazione di cui stiamo parlando, risiede nell’ assenza del soggetto a cui vengono rivolti gli insulti. Fondamentale quindi distinguere in maniera appropriata i due diversi casi.

Nel primo l’ offesa viene rivolta direttamente ad una persona presente e mentre un tempo era illecito penale, è poi stato ridotto a illecito civile.Chi commette reato di ingiuria non viene quindi condannato a reclusione, bensì al pagamento di una multa pecuniaria finalizzata al risarcimento della persona offesa.

Nel secondo caso si tratta di un più grave reato, quello di diffamazione, che prevede che il destinatario degli insulti sia assente e che le offese vengano comprese da due o più persone, proprio come puó avvenire in una chat di gruppo su whatsapp.

Risulta condizione necessaria  che nel gruppo siano presenti più di due persone ad esclusione del colpevole e del leso e soprattutto che al momento della condivisione dell’ offesa la parte lesa sia offline.

In caso contrario ricadremmo nel reato di ingiuria in quanto, seppur virtualmente, la persona offesa risulterebbe presente al fatto e l’insulto non avverrebbe “dietro le spalle”. 

Ingiuria e offesa

Per fare un esempio consideriamo il classico “botta e risposta” in una chat di gruppo: se la persona a cui viene rivolta l’ offesa è presente alla conversazione si tratterà di ingiuria; se altrimenti l’offeso scoprisse gli insulti a lui diretti, e comunicati a più di due persone, solamente collegandosi in un secondo momento o venendone a conoscenza in seguito in caso di conversazione avvenuta in un gruppo a cui lui stesso non partecipa, sussisterà il reato di diffamazione.

Ulteriore esempio di diffamazione tramite whatsapp, come avvenuto appunto nel caso in oggetto, sussiste quando vengono pubblicate offese nei confronti di qualcuno attraverso lo stato.

La Suprema Corte non ha valutato potesse essere un’ attenuante il fatto che non fosse noto se i vari contatti in rubrica fossero possessori dell’ applicazione e quindi in grado di leggere lo stato dell’ accusato.

Per i giudici l’ intento diffamatorio è stato assolutamente razionale; in caso contrario al mittente sarebbe bastato inviare il commento in maniera diretta ed individuale alla sua “vittima”.

La posizione della CEDU

Anche la CEDU si è pronunciata in merito alla diffamazione sui social network. L’ art. 8 della CEDU infatti tutela il diritto alla privacy e alla reputazione di ogni individuo e pubblicando offese nei confronti di qualcuno sui social questo viene violato.

 La Corte Europea, che impone agli Stati di tutelare questo diritto, ha elencato in maniera specifica le argomentazioni da considerare trovandosi di fronte ad un tale reato.

Prima di tutto quale contributo apporti alla conversazione l’ epiteto oggetto di condanna, a seguire il grado di notorietà della parte lesa, l’ argomento su cui verteva la discussione, la condotta “ante factum” della vittima, il contenuto, la forma e le conseguenze di tale offesa ed infine la severità della pena attribuita.

Lo scopo fondamentale è quello di garantire che venga rispettato l’equilibrio tra la libertà di espressione da una parta e la tutela della reputazione personale dall’ altra.

Un esempio su tutti lo possiamo trovare nel caso del cittadino svedese Pihl.Costui ha presentato ricorso ai giudici di Strasburgo dopo che i tribunali autoctoni avevano respinto ogni sua richiesta di accusa per diffamazione verso un blogger che aveva pubblicato tra i commenti di un suo post quello di un autore anonimo che sosteneva l’ appartenenza dell’ uomo al partito nazista.

Ma anche la CEDU ha respinto in maniera unanime il ricorso, dando atto ai giudici svedesi di aver correttamente equilibrato il diritto al rispetto della vita privata con quello alla libertà di espressione (rispettivamente art. 8 e art. 10 della convenzione europea dei diritti dell’ uomo).

Secondo la Corte Europea infatti il gestore di un blog non è tenuto a rispondere legalmente alle diffamazioni pubblicate da persone anonime.

Possiamo concludere ribadendo il fatto che la valutazione del reato di diffamazione a mezzo social si basa sempre sul rapporto di equilibrio tra i fondamentali diritti dell’ uomo, ovvero quello della libertà di espressione e quello del diritto al rispetto della propria reputazione.

Foto di Cristian Dina da Pexels

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